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mistero dell’identità del giovane di Mozia.

“Oh santa giovinezza, messaggera di Cipro e di Eros, giovinezza che troneggi sulle ciglia delle vergini e nei languidi sguardi di un bell’efebo; giovinezza che dolcemente ci culli nelle tue braccia, e sai anche accendere i nostri sensi”

(Pindaro, VI sec. a.C.)

Che L’Efebo custodito al Museo Whitaker dell’isola di Mozia (Marsala) potesse

essere un auriga, ossia un giovane alla guida di un cocchio, era stato già ipotizzato, sebbene non mancasse chi presumeva potesse essere un dio (in particolare Apollo o Mlkart/Ercole) o un magistrato punico (suffeta). Di recente però la prima ipotesi è tornata in auge con più forza dopo le dichiarazioni rilasciate da Lorenzo Nigro, docente associato di archeologia e storia dell’arte all’Università La Sapienza di Roma, secondo il quale l’autore dell’opera avrebbe ritratto Alcimedonte, il capo mirmidone greco figlio di Laerce, ricordato da Omero nei libri XVI e XVII dell’Iliade e descritto come un ottimo auriga che guidò personalmente il carro di Achille, trainato dagli immortali destrieri Balio e Xanto, fuori dal terribile scontro accesosi per la contesa del corpo di Patroclo, ucciso da Ettore.

La statua siciliana – di fattura greca del V° sec. a.C. (450-440 a.C.) – è stata esposta la scorsa estate al British Museum in occasione delle Olimpiadi di Londra e continuerà a viaggiare per il mondo ancora per circa un anno e mezzo. Soprattutto negli Usa, dove rimarrà a lungo nel “Paul Getty Museum” di Malibù.

Nigro da undici anni, d’intesa con la Soprintendenza ai Beni culturali di Trapani e la Fondazione Whitaker, proprietaria dell’isola di Mozia, dirige campagne di scavi sull’isola, che tra l’VIII e il IV secolo avanti Cristo fu importante colonia fenicia e centro egemone nel Mediterraneo. Il professor ha spiegato a Marsala che è stato possibile risalire all’identità del personaggio raffigurato nella statua grazie all’iscrizione (“Alkimedon”) su un vaso di ceramica attico scoperto sull’isola nella zona dove sono state trovate le fondamenta del tempio (“Temenos”) attorno al “Kothon”, la vasca per abluzioni effettuate nell’ambito di cerimonie religiose.

Il vaso di ceramica (“cratere di Alcimedonte”) sarebbe stato commissionato in Attica dai moziesi e raffigura una scena di simposio. Nel posthomerica, dopo l’Iliade, si racconta che Alcimedonte venne trafitto mortalmente da Enea durante una delle tante battaglie sotto le mura di Troia. La statua del “Giovinetto in tunica”

, dagli elementi superstiti (le braccia risultano quasi del tutto mancanti sin dal ritrovamento) lascia intuire il braccio destro sollevato (forse a brandire un frustino nell’ipotesi dell’auriga), ed il sinistro appoggiato sul fianco, dove ancora si vedono i resti della mano. Il ragazzo indossa una leggera tunica e sfoggia uno sguardo fiero, attributi che arricchiscono il fisico atletico e prestante. La scultura, in passato esposta anche a Venezia (due volte) e a Berlino, è stata rinvenuta a Mozia il 26 ottobre del 1979, nel corso degli scavi effettuati nel settore nord-orientale, tra il santuario di Cappiddazzu e la cinta muraria. Secondo gli esperti sarebbe stata scolpita da un allievo di Fidia. Fu trovata sottoterra. Forse, fu nascosta nel corso della guerra con Siracusa (397 a. C.) per evitare che cadesse nelle mani del nemico e probabilmente era stata portata sull’isola dai Cartaginesi dopo che questi ebbero saccheggiato Selinunte nel 409 a.C.

La statua, in marmo jonico della Tessaglia, è alta poco meno di 190 centimetri e forse faceva bella mostra di sé nell’agorà di Mozia, all’aperto. Lo stile in cui è stata scolpita è in arcaico ionico. E’ caratterizzata dallo stile “panneggio bagnato”. Quattro chiodi di bronzo, presenti nella testa, hanno fatto pensare che il capo fosse cinto da una corona, simbolo di vittoria. Il museo Whitaker di Mozia che oggi la ospita, custodisce anche i corredi funebri provenienti dalla necropoli arcaica dell’isola, le anfore commerciali greche, fenicie ed etrusche ed una ricca collezione di vasi a vernice nera e figure rosse, oltre a materiali provenienti dal tofet, dall’abitato di Mozia e dalla Casa dei Mosaici. Tra gli oggetti esposti vi sono gioielli ed armi, amuleti e scarabei e oggetti con incise didascalie originali, strumenti per la cosmesi o per la chirurgia. I gioielli sono prevalentemente in argento e bronzo, oltre che in oro, di discreta fattura, compresi tra il VII e il IV secolo a.C..

L’ISOLA DI MOZIA: ASCESA E DECLINO DI UN LUOGO MAGICO

Situata a circa 1 km dal litorale di Marsala, l’isola di Mozia (o Mothya – oggi S. Pantaleo) si staglia al centro dello Stagnone (una laguna scarsamente profonda), affiorando di poco sul livello del mare. Con le isole vicine fa parte della Riserva Naturale Regionale dello Stagnone di Marsala. E’ di piccole dimensioni ma nei suoi 45 ettari circa di estensione raduna tutte le suggestioni naturalistiche e culturali del Mediterraneo. Ciò la rende un luogo di grande fascino, ad accrescere il quale contribuiscono i resti dell’omonima antica città fenicia che ne ricopriva la superficie, oltre ai circa 10 mila reperti conservati al Museo Joseph Whitaker, così detto dal nome del produttore inglese di vini siciliani, appassionato di archeologia, che ne fu il proprietario e a cui è intitolata anche la Fondazione che oggi possiede l’isola.

L’accesso all’isola è consentito solo da due imbarcaderi privati, che oltre a collegare la stessa Mozia alla terraferma permettono di visitare anche le altre isole dello Stagnone. Sull’isola benché sia aperta al pubblico e visitabile durante gli orari di apertura, è in vigore il divieto di sbarco non autorizzato. Nell’antichità una strada collegava la terraferma all’isola tra Capo San Teodoro e l’estrema punta moziese settentrionale: oggi la stessa via traspare sotto la superficie del mare e non è più praticabile a causa dell’erosione e delle alghe di Posidonia oceanica.

«Era situata su un’isola che dista sei stadi dalla Sicilia ed era abbellita artisticamente in sommo grado con numerose belle case, grazie alla prosperità degli abitanti»: così scrivava di Mozia lo storico Diodoro Siculo nel I° sec. a.C.

L’isola fu probabilmente interessata dalle esplorazioni dei mercanti-navigatori fenici, che si spinsero nel Mar Mediterraneo occidentale, fin dalla fine del XII secolo a.C.: dovette rappresentare un punto d’approdo ed una base commerciale morfologicamente molto simile alla città fenicia di Tiro. Vi si svolse un’intensa attività di concia delle pelli e di estrazione della porpora dalla lavorazione dei murici, i molluschi delle cui conchiglie è ancor oggi disseminata la laguna che circonda l’isola. Il suo nome antico in fenicio era Mtw, Mtw o Hmtw, come risulta dalle legende monetali; il nome riportato in greco, Motye, Μοτύη, è citato anche da Tucidide e da Diodoro Siculo. Intorno alla metà dell’VIII secolo a.C., con l’inizio della colonizzazione greca in Sicilia, Tucidide riporta che i Fenici si ritirarono nella sua parte occidentale, più esattamente nelle tre città di loro fondazione: Mozia, Solunto e Palermo. Archeologicamente è testimoniato un insediamento della fine dell’VIII secolo a.C., preceduto da una fase protostorica sporadica ed alquanto modesta. Le fortificazioni che circondano l’isola possono essere forse collegate alle spedizioni greche in Sicilia occidentale di Pentatlo e Dorieo nel VI secolo a.C. Nel 397 a.C. Dionisio di Siracusa prese e distrusse la città all’inizio della sua campagna di conquista delle città elime e puniche della Sicilia occidentale; l’anno successivo Mozia venne ripresa dai Cartaginesi, ma perse di importanza in conseguenza della fondazione di Lilibeo. Dopo la battaglia delle Isole Egadi nel 241 a.C. tutta la Sicilia passò sotto il dominio romano, ad eccezione di Siracusa: Mozia doveva essere quasi del tutto abbandonata, dal momento che vi si sono rinvenute solo pochissime tracce di nuova frequentazione, generalmente singole ville di epoca ellenistica o romana.

Schliemann l' archeologo che derubò Mozia

Quando i personaggi ormai entrati nell' empireo del mito si scontrano con

le rivelazioni della storia quotidiana, vengono alla luce fatti davvero sorprendenti. Si scopre così che il celebre Heinrich Schliemann - lo scopritore di Troia e del tesoro di Priamo - non era propriamente uno studioso chino sui libri ma piuttosto un' abile trafugatore di importanti pezzi archeologici siciliani, e che il Gran Tour, che richiamava nell' Isola ricchi inglesi, francesi e tedeschi, era anche una interessante opportunità per acquistare statue e gioielli provenienti da scavi, da portare tranquillamente in patria. Se a questo si aggiunge un travagliato rapporto tra Schliemann e l' isola di Mozia, la presenza ingombrante di mafia e massoneria e la misteriosa fine dell' archeologo probabilmente avvelenato con un caffè - modalità che ricorda tanto vicende molto più recenti - ecco servita un' appassionante spy-story. La mano che racconta con dovizia e passione le vicende dell' archeologo tedesco e gli intrighi internazionali svoltisi soprattutto nel Regno delle due Sicilie, è quella del giornalista Mario La Ferla - trent' anni di inchieste per l' Espresso - autore de "L' ultimo tesoro, la vita segreta e la morte sospetta di Heinrich Schliemann, l' inventore di Troia" (appena pubblicato per Stampa alternativa, 158 pagine, 12 euro). (segue dalla prima di cronaca) Racconta La Ferla: «Schliemann era un personaggio decisamente sopra le righe, ossessionato dalla fama e dalla gloria. Era un vero appassionato di archeologia, e riuscì a fare di quest' ultima un' arma per diventare potente». Quando l' archeologo tedesco arriva a Mozia sono appena trascorsi due anni dalla scoperta della città di Troia, localizzata leggendo Omero. Schliemann è uno degli uomini più noti e celebri al mondo, la sua vicinanza ai potenti della terra è nota. Conteso dai salotti del bel mondo internazionale, decide però di proseguire la sua attività di ricerca e scavo, volta alla scoperta di nuovi tesori. Dell' antica e sconosciuta città siciliana di Mozia gli giungono notizie alle orecchie tramite un giro singolare: nella casa londinese del primo ministro inglese, lord Gladstone, Schliemann incontra gli uomini politici italiani più importanti: Mazzini, Cavour, Garibaldi, intenti ad accordi con la "corona" inglese per ridefinire la situazione europea. è proprio Giuseppe Garibaldi, il liberatore della Sicilia, a confidargli che poco prima del suo sbarco a Marsala un suo fugace soggiorno sull' isoletta di Mozia gli aveva permesso di vedere con i propri occhi una notevole quantità di tesori sconosciuti al mondo. Così, confidando questo segreto allo studioso amico di lord Gladstone, Garibaldi pensa di sdebitarsi dell' aiuto ricevuto dall' inglese per organizzare il suo sbarco in Sicilia. Schliemann memorizza immediatamente il nome dell' isoletta, proponendosi una visita da realizzare nel più breve tempo possibile: l' intenzione era quella di scavare e recuperare i tesori abbandonati dagli abitanti nel 397 avanti Cristo, durante la fuga precipitosa per sfuggire la massacro dei greci. «L' archeologo - dice Mario La Ferla - dopo aver intrapreso gli scavi, ad un certo punto abbandonò all' improvviso Mozia. A quanto pare Giuseppe Lanza di Trabia, responsabile delle Belle arti per la Sicilia, arrivò a Mozia rimproverandolo per non averlo avvertito dell' inizio degli scavi. Ma né l' ipotesi del principe arrabbiato, né quella del caldo e delle scomodità sembrano avere sufficiente forza per spaventare un uomo che aveva resistito agli scorpioni e ai briganti della Troade». In realtà probabilmente, Schliemann aveva oltrepassato certe indicazioni che gli provenivano da ambiente mafioso, il cui potere era cresciuto in maniera esponenziale, fino a concludere importanti patti con la massoneria. «Da quando i mafiosi - scrive La Ferla - avevano scoperto che c' era gente disposta a sborsare grandi cifre per comprare frammenti di statue, vasi e colonne, per farne bella mostre nelle loro case di Parigi e di Londra, i clan trapanesi si erano organizzati, in particolare tenevano sotto controllo Mozia, dove sapevano che sottoterra c' erano tesori che potevano farli arricchire». Ora, che il controllo del territorio fosse affidato alla mafia non doveva essere una novità neanche per uno straniero: si pensi che il "Times", nella seconda metà dell' Ottocento, pubblicava una rubrica periodica sui misfatti dei criminali siciliani. Che con i sequestri degli stranieri si erano molto dati da fare: furono rapiti in Sicilia e rilasciati solo dietro cospicuo riscatto lo scrittore William Moens, l' industriale John Forester Rose, la piccola Audrey Whitaker, per la quale il padre Joshua pagò la cifra record di 100 mila lire. La Ferla dice: «Può darsi che Schliemann fosse venuto a patti con i clan dei trapanasi prima di iniziare gli scavi, in vista di una spartizione del bottino. E non è da escludere che l' archeologo quei patti non li avesse rispettati, trovando reperti interessanti. I mafiosi uccidevano per molto meno. Non c' è da meravigliarsi se qualche banda mafiosa del trapanese si fosse messa in contatto con gli amici di Napoli per sbrigare una pratica importante e delicata». Heinrich Schliemann morì a Napoli nel 1890, il giorno dopo Natale. Barcollava tra via Toledo e piazza Plebiscito, fu raccolto e portato in albergo dove gli furono dati un brodo caldo e un caffè. Non si risvegliò più.

fonte > http://ricerca.repubblica.it


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