Bambini del gulag. La silenziosa strage di papà Stalin
Orfani, poveri e ladri. Oppure figli della nomenklatura caduta in disgrazia. Furono milioni i piccoli “nemici del popolo” deportati, rinchiusi negli orfanotrofi, spesso derubati della propria identità . Ora, per la prima volta, un libro dà un volto e una voce alle loro storie”…Siamo scalzi, nudi, affamati e pieni di pidocchi. A colazione ci danno un pezzetto di pane, cipolla e sale…”
Orfani, poveri e ladri. Oppure figli della nomenklatura caduta in disgrazia. Furono milioni i piccoli “nemici del popolo” deportati, rinchiusi negli orfanotrofi, spesso derubati della propria identità . Ora, per la prima volta, un libro dà un volto e una voce alle loro storie”…Siamo scalzi, nudi, affamati e pieni di pidocchi. A colazione ci danno un pezzetto di pane, cipolla e sale…
” C´ è una foto molto famosa di Stalin con in braccio una bambina che gli cinge affettuosamente il collo. Era stata scattata nel 1936, durante un incontro al Cremlino con una delegazione della Repubblica autonoma sovietica buriato-mongola. Fu pubblicata il giorno dopo quasi a piena pagina sulla Izvestia e tutti gli altri giornali. Lei aveva sei anni, si chiamava Gelya Markizova, era la figlia del secondo segretario del Partito comunista locale. Quel che si seppe solo molto più tardi è che suo padre fu fucilato poco dopo come «spia al soldo dei giapponesi». La madre fu anche lei uccisa in un misterioso incidente automobilistico. La bambina finì in un orfanotrofio per «nemici del popolo» in Kazakhstan. Poi se ne persero le tracce fino a che, nei primi anni Novanta, fu rintracciata, ormai sessantenne, da una troupe della televisione finlandese. Raccontò che della fine dei suoi genitori aveva saputo solo dopo la destalinizzazione. Dall´orfanotrofio aveva scritto a Stalin, allegando un ritaglio dei giornali con quella foto, ma non aveva mai ricevuto risposta. Eppure era una bambina fortunata. Ad altri milioni di suoi coetanei era capitato di ben peggio. Molti avevano perso anche il nome, qualcuno non è mai riuscito a risalirvi, nemmeno dopo il crollo dell´Urss.
Fu un immane massacro di innocenti protrattosi per oltre mezzo secolo. Di generazione in generazione.
Di cui si sapeva pochissimo. Finché nel 2002 fu pubblicata a Mosca una ponderosa raccolta di documenti intitolata Deti Gulaga 1918-1956, i bambini del Gulag. Di queste cose non si parlava. Non ci sono bambini nei libri di Solzhenitsyn e Šalamov. Le stesse piccole vittime, quelli che erano sopravvissuti, e ormai erano adulti, anzi vecchi, non si raccapezzavano. Nessuno gli aveva raccontato nulla, men che meno i genitori o i parenti. Per il loro bene. Una frase ricorrente nelle testimonianze raccolte tra coloro che erano bambini nei molti decenni di anni terribili è: «Il silenzio era la nostra salvezza». Ora è fresco di stampa un volume in inglese di Cathy Frierson e del curatore della raccolta originale di Dieti Gulaga, Semyon Vilensky, intolato Children of the Gulag (Yale University Press). Non mi risulta che ne sia in programma una edizione in italiano. Non è un romanzo. Solo documenti, pezze burocratiche ufficiali, rapporti di commissioni di inchiesta, direttive degli organi superiori, lettere, diari, fino alle più recenti ricostruzioni fondate sugli spezzoni di memoria di bambini che avevano pochi anni all´epoca dei fatti. Niente effetti speciali, solo aridi fatti e ancor più aride note. L´ho letto e sono scoppiato a piangere. Non mi era mai capitato per un libro. E dire che talvolta forse ho il vezzo di atteggiarmi a cinico.
Credevo di saperne ormai tutto sul Gulag. È noto che gli anni della guerra civile seguita alla Rivoluzione d´Ottobre furono tremendi. Nel solo 1918 la mortalità infantile superava il cinquanta per cento. Si stima che tra il 1921 e il 1922 sette milioni e mezzo di bambini patissero la fame e che perirono il novanticinque per cento dei bambini al di sotto dei tre anni, e un terzo di quelli che ne avevano più di tre. Il quaranta per cento dei deportati nel corso della campagna di “dekulakizzazione” erano bambini. Nei soli anni 1937-1938, all´apice del terrore, furono giustiziate settecentomila persone. Se si stimano due figli piccoli per giustiziato, fa 1,4 milioni di orfani. Il paese era invaso da piccoli vagabondi che vivevano di furti ed espedienti, si organizzavano in bande che perpetravano saccheggi, stupri, assassinii. Nel 1935, dopo l´efferato omicidio di due anziani coniugi nella loro casa a Mosca, un decreto del Soviet supremo abbassò l´età in cui si era passibili di una condanna penale a dodici anni. L´opinione pubblica plaudì la fermezza di Stalin. Poi negli istituti di pena per minori e negli orfanotrofi cominciarono ad arrivare i figli dei «nemici del popolo». Che non erano più solo poveracci ma sempre più spesso gli esponenti della nomenklatura che aveva represso i precedenti «nemici». L´ordinanza n. 00486 del commissario del popolo per gli affari interni dell´Urss, datata 15 agosto 1937, prescrive con agghiacciante dettaglio l´«Operazione di repressione delle mogli e dei figli dei traditori della Patria». Andavano trattati come elementi «socialmente pericolosi», non per quello che avevano fatto o non fatto, ma solo per quello che avrebbero potuto fare, o solo pensare, in quanto parenti di arrestati. Per le mogli divenne obbligatorio l´arresto, con la sola esclusione di quelle che avevano denunciato i mariti. Per gli adolescenti erano prescritti deportazione e campo di concentramento, per gli infanti gli orfanotrofi speciali gestiti dall´Nkvd. Meno male che Stalin in persona aveva detto che «i figli non devono pagare per le colpe dei padri». È noto che aveva un gran senso dell´humour. Nel suo Il primo cerchio, Solzhenitsyn gli attribuisce, a proposito di mandare al gulag i minorenni, la battuta: «Sono ancora giovani, sopravviveranno». Con la guerra si aprì per loro una possibilità di uscirne, per andare a morire al fronte. Molti si sacrificarono eroicamente. La guerra ai piccoli nemici continuò negli anni successivi. La stima, prudente, fatta nel 2002 dal presidente dell´allora Commissione del Cremlino per la riabilitazione delle vittime della repressione politica, Aleksandr Yakovlev, è di venti-venticinque milioni di vittime nell´intera era sovietica e, quindi, di almeno dieci milioni di orfani. Queste le cifre, che già conoscevo. Ma un altro paio di maniche è dar loro un nome, un volto, sentirne la voce. Nei primi capitoli le lettere, rigorosamente protocollate, che gli orfani della guerra civile, e poi della campagna contro i kulaki, inviavano a Yekaterina Peshkova, moglie di Gorki e presidente della Croce rossa sovietica, e a Nadezhda Krupskaya, la vedova di Lenin, vice commissario all´istruzione e responsabile degli orfanotrofi e istituti correzionali per minorenni, sono dure. Ma tutto sommato ancora come Dickens, anche se all´ennesima potenza. «Krupskaya, mammina nostra… non abbiamo né vestiti né scarpe, e non sappiamo con cosa andare al lavoro, ma se non andiamo al lavoro perché non abbiamo nulla da metterci addosso ci cacciano… una nostra compagna dell´orfanotrofio ha fatto quattro assenze perché non aveva né scarpe né vestiti… l´hanno cacciata via, si è messa a piangere, il direttore le ha risposto in scherno: vai a battere… se ci cacciano ci sarà una nuova massa di ragazzi di strada e ladri…». «Siamo scalzi, nudi, affamati e pieni di pidocchi… a colazione ci danno un pezzetto di pane, cipolla e sale. A pranzo una barbabietola lessa con del cavolo, e alla cena non dobbiamo neanche pensare, perché non c´è…». «Facciamo il bagno ogni due mesi, qualche volta tre, la biancheria ce la danno di rado… il direttore dà scarpe vecchie solo ad alcune bambine cui vuole bene…». Le ispezioni confermano. Un funzionario dei servizi di sicurezza scrive a Dzerzhinskij, il fondatore di quello che poi sarebbe divenuto il Kgb, che le istituzioni per l´infanzia sono divenute «senza esagerazione, cimiteri e latrine dell´infanzia». La Krupskaya si dà da fare, scrive accorati articoli sulla Pravda. Ma quando la corrispondente di un giornale socialdemocratico europeo le chiede delucidazioni sulle voci che cominciano a filtrare anche all´estero, le risponde con una favola che invita a non curarsi dei «cani che abbaiano». Poi si passa all´intollerabile, all´inimmaginabile. A pagina 312 un rapporto ufficiale, top secret, depreca «il lavoro estremamente irresponsabile» nella gestione degli infanti al seguito di «madri prigioniere». Con freddo linguaggio burocratico si elenca, istituzione per istituzione, il numero dei bambini febbricitanti, ammalati di dissenteria cronica, tifo, difterite, polmonite, distrofia, tbc, sifilide. Traghetto per traghetto si censiscono i trasporti di madri con lattanti a Magadan. Sei su dieci vengono imbarcati gravemente malati. Quasi tutti muoiono prima di arrivare a destinazione. Il documento è datato novembre 1952. A guerra finita da un pezzo. Questi, i milioni, sono anonimi. Le altre, le innumerevoli storie di cui i protagonisti hanno ancora qualcosa da raccontare, sono in fin dei conti storie di sopravvivenza. Qualcuno, soprattutto quelli che facevano parte dell´alta nomenklatura finita da un giorno all´altro in disgrazia, ha anche foto di famiglia. Straordinario come somiglino a tutte le foto di famiglia. Sono uguali a quelle di due miei zii che andarono clandestinamente in Russia negli anni Trenta, per «fare la rivoluzione», e di cui non ho mai ritrovato traccia, nemmeno dopo l´apertura degli archivi (che con Putin si sono richiusi). In alcune delle reminiscenze raccolte da Memorial negli anni Novanta ho trovato una possibile spiegazione. A molti di quei bambini fu cancellata persino l´identità, gli cambiarono nome, non sono mai riusciti a risalire ai certificati di nascita, nemmeno oggi.
fonte: www.micciacorta.it