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leggenda della dea Ericina ( Erice trapani)

Monte San Giuliano sul quale sorge la città di Erice. Anche se il suo nome deriva dall’apparizione del Santo omonimo, avvenuta nel 1090 durante un assedio della città, la sua maggior importanza si deve al culto di Venere e al tempio a lei dedicato, un tempio così importante che ben diciassette città siciliane vennero costrette a versare tributi affinché fosse mantenuto al meglio. prima ancora che fosse dedicato dai Fenici ad Astarte, quello che fu il "thémenos", il santuario di Afrodite, il tempio di Venere Ericina, era il luogo della dea dell'amore. Un luogo che avrebbe attirato su questa vetta popolazioni e dove, secondo Diodoro Siculo, Erice, figlio di Bute. uno degli argonauti di Giasone, e di Afrodite stessa, aveva eretto il tempio dedicato alla propria madre e fondato la città., il culto della Venere ericina, a cui i marinai di passaggio erano particolarmente devoti, giovani prostitute sacre alla dea, crebbe insieme alla sua fama e alla sua ricchezza: Tucidide fa riferimento a "i doni fatti alla Dea, anfore, coppe e ricche masserizie..." dai pellegrini e Diodoro Siculo attribuisce a Dedalo, fuggito da Creta, la creazione di un ariete d'oro dedicato ad Afrodite. In ogni caso, è chiaro che un luogo come Erice, in una posizione geografica del tutto privilegiata per l'ampissima visuale, oltretutto fortificato e protetto efficacemente, dovesse assumere il potere che l'interesse dei popoli che si succedettero attribuirono al santuario-fortezza. sconfitti i Cartaginesi, si "appropriarono" del luogo e del culto della Venere, da tempo diffuso in molte città mediterranee, ricostruirono il tempio sulle rovine lasciate dalla guerra, riportando Erice agli antichi splendori, e fecero erigere a Roma, prima, un piccolo tempio sul colle Capitolino e, nel 181 a.C., uno più grande presso Porta Collina, dedicati alla dea ericina.

La considerazione dell'Impero per Erice fu tale da stabilire di porre, a protezione del thémenos ericino, una guarnigione di soldati e che le città più fedeli della Sicilia dovessero sostenere anche economicamente il culto. Addirittura, la città e il suo territorio verranno citate da Virgilio che scrive di come Enea si fermò in questi luoghi e volle seppellire vicino al santuario il padre, Anchise, prima di veleggiare per il Lazio dove fondò Roma: questo mito legò, quindi, di "parentela" elimi e romani, entrambi discendenti da Venere, madre sia di Enea che di Erice... A lei, contribuendo ad arricchire il tesoro del tempio, offrirono doni governatori, magistrati, alti militari fino a che, diminuiti i traffici marittimi e con essi la solidità economica della Sicilia, il culto, già impoverito dal fatto di essere praticato in quello che era divenuto un centro militare, fu debellato dall'avanzare del cattolicesimo. Dopo il periodo romano, quello del massimo splendore, ad Erice si succedettero bizantini, saraceni - con questi ultimi si chiamò Gebel al Hamid - e normanni: Ruggero d'Altavilla battezzò il borgo e il territorio Monte San Giuliano, in onore del Santo che era intervenuto, a cavallo e con una muta di cani, a dare man forte ai suoi soldati contro gli arabi. Che con rimpianto lasciarono la rocca e, soprattutto, le donne di Venere: "che Allah il misericordioso le faccia schiave dei Musulmani" scrisse, nel 1185, Ibn Giubayr. Nel tempio venivano allevate moltissime colombe e, secondo le antiche credenze, era il luogo preferito da Venere per appartarsi con i suoi amanti. Narra la leggenda che quando la Dea abbandonò il tempio per trasferirsi in Africa, tutte le colombe scomparvero improvvisamente; dopo nove giorni ecco arrivare da lontano una colomba rossa, si trattava di Venere che faceva ritorno. Da allora, ogni anno, si svolgeva una grande festa chiamata “la partenza e il ritorno della Dea”. Con l’avvento del Cristianesimo il tempio venne abbattuto e al suo posto sorse una Chiesa dedicata alla Madonna, furono molti i miracoli che si registrarono in seguito ma ancora in molti sono pronti a giurare che l’influenza dell’antico tempio continui ad abitare quei luoghi.

"Dopo di che desiderando (Eracle; n.d.A.) di girare intorno tutta l'isola, prese la strada da Peleriade ad Erice; e mentre scorrea il lido, dicesi, che le Ninfe stesse vennero ad aprir bagni di acque calde, affinché potesse alleviare la stanchezza contratta dal viaggio. Due di questi bagni, detti dai luoghi, gli uni imerj, e gli altri egestani, sussistono anche presentemente (i riferimenti a Segesta ed Imera sono evidenti; n.d.A.). Poiché Ercole fu giunto alle campagne sottoposte a Erice, Erice, figliuolo di Venere e di Buta, signor del luogo, sfidò l'Eroe alla lotta: onde depositato dall'una e dall'altra parte il pegno della sfida, che per Erice furono le campagne, e per Ercole le vacche (che aveva con sé durante il suo vagare per il mondo, con le quali raggiunse anche la Sicilia, essendo vacche sacre conquistate in altra impresa; n.d.A.), Erice sul bel principio andò in collera pretendendo, che fosse ingiusta cosa il voler mettere quelle vacche a paragone colle sue terre. Ma Ercole all'opposto dichiarò di tal pregio essere quelle vacche, che quando venisse a perderle, verrebbe a perdere l'immortalità. Laonde finalmente Erice acquietatosi a tal condizione, scese alla prova; e vinto da Ercole perdette il possesso del suo paese, il quale Ercole intanto consegnò come un deposito agli abitanti in usufrutto, fino a tanto che alcuno de' nati (nativi; n.d.A.) da sé venisse a domandarlo. Il che infatti di poi si verificò". E sempre Erice ha legato il suo nome e la sua storia, che quando troppo antica inevitabilmente sfuma nel mito, a quello del primo mortale che realizzò il sogno del volo. Parliamo di Dedalo e del suo genio ingegneristico. "Dedalo volgendo indietro la prora, andò in Sicilia (in fuga da Creta, dopo la costruzione del labirinto a Cnosso, per conto del re Minosse; n.d.A.); e prese terra nel luogo, ove regnava Cocalo (il re sicano, figlio del ciclope Briareo; n.d.A.) il quale lo accolse benignamente, e dall'ingegno, e dalla celebrità dell'uomo colpito, se gli fece grande amico. Da alcuni viene raccontata la favola seguente. Standosi Dedalo tutt'ora in Creta, e tenutovi da Parsifae nascosto, Minosse che di lui cercava per farlo morire, promise un grosso premio a chi glielo indicasse.Ora perduta il valentuomo la speranza di avere una nave, con cui salvarsi, ebbe ricorso al suo ingegno, e si fabbricò due ale meravigliose, e due ne fece a suo figlio, e queste e quelle ben composte di penne e cera, ed attaccatele a' suoi òmeri, e a quelli dell'altro, prese volo, e passò il mar cretico. Ma Icaro, con giovanil leggerezza volò troppo alto, sicché pel calor del sole liquefattosi la cera delle ale cadde nelle onde sottoposte; laddove il padre volando poco al di sopra del mare, e di tratto in tratto coll'acqua le ale inumidendo, sano e salvo arrivò in Sicilia. Noi credemmo di dover accennare questa favola, quantunque essa sia strana e assurda. Dedalo visse molto tempo presso Cocalo, e i Sicani; e per la eccellenza dell'arte sua v'ebbe credito grande, e vi fu assai onorato. Ivi fece alcune opere, che rimangono fino al giorno d'oggi. Perciocché nel territorio di Megaride con molta acutezza d'ingegno costrusse quella che chiamano Colimbetra (significa 'grande bacino'; n.d.A.), dalla quale un grosso fiume, che dicesi Alabone, va a gittarsi nel mare. (...) Inoltre essendo in Erice una rupe troppo scoscesa ed alta, la quale anche per la somma angustia del sito non permetteva che si fabbricasse un tempio a Venere se non tra precipizj, Dedalo intorno a questi tirando un muro, e colmandone tutto il vuoto, venne a preparare alla sommità stessa della rupe un superbo campo, su cui piantar l'edificio".


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