Quei corpi imbalsamati tra Francia ed Italia
Utilizzata per i più importanti esponenti della nobiltà e dell’aristocrazia almeno dal IX secolo, la pratica dell’imbalsamazione con rimozione degli organi interni (detta eviscerazione) divenne qualche secolo più tardi una pratica usuale per le élite aristocratiche dell’Europa dal basso medioevo all’età moderna, quando una serie di tecniche empiriche e/o trasmesse attraverso i testi medici ritenuti autorevoli saranno rimpiazzate, a partire dal XIX secolo, da nuove metodologie dovute a pionieri come Jean-Nicolas Gannal (1791-1852). Come ricordano l’archeologo René Corbineau, dell’Aix-Marseille Université, e colleghi in un articolo in via di pubblicazione su Vegetation History and Archaeobotany[1], abbiamo un’idea abbastanza precisa delle procedure medievali: il corpo è eviscerato da un chirurgo attraverso l’apertura del torace e/o dell’addome mentre il cervello è estratto attraverso una craniotomia. I vasi sanguigni principali sono incisi per far defluire il sangue all’esterno. Le cavità interne sono riempite e la pelle è trattata con preparati aromatici realizzati da farmacisti. Infine, il corpo è avvolto in un sudario e sepolto in una bara di piombo. Quali erano questi preparati aromatici? E avevano davvero un ruolo nella conservazione dei corpi, scopo ultimo delle procedure di imbalsamazione? Alla prima di queste domande tenta di rispondere lo studio pionieristico di Corbineau e colleghi, fra i quali il paleopatologo pisano Gino Fornaciari (fra gli esaminatori, nel 2014, presso l’Université du Maine, della tesi di dottorato in archeologia dello studioso francese, dedicata agli stessi argomenti[2]). Il tentativo, per ora limitato, come si evince anche dal titolo dell’articolo, alla Francia (in realtà settentrionale) e all’Italia, è fatto attraverso due vie complementari: l’esame della tradizione scritta in trattati medici ed enciclopedie e l’analisi dei risultati delle indagini bio-archeologiche su una serie di resti umani.
La prima strada è piuttosto complessa, perché non richiede solo competenze archeobotaniche e paleopatologiche, ma pure quelle dei filologi, degli storici della medicina, degli storici della botanica e, per le piante e sostanze importate, degli storici della mercatura. Idealmente, sarebbe infatti necessario un censimento estensivo di tutte le possibili fonti, individuando anche le migliori edizioni disponibili. Poi, si dovrebbero esaminare i testi raccolti nel corpus nel tentativo di individuare eventuali influenze reciproche e, soprattutto, i casi in cui non ci si trova di fronte a ricette “operative” ma di semplice “prestito” o “copia” da Autorità o comunque autori precedenti. Queste, infatti, sarebbero qualcosa di simile ai codex descriptus della filologia, quei codici copie di altri manoscritti già noti ben poco utili nella ricostruzione dell’originale: ricette di questo tipo ci darebbero informazioni su chi era ritenuto autorevole, non sulle pratiche effettivamente utilizzate in un certo periodo e in un certo luogo. Infine, come notano gli stessi autori, c’è il problema di associare le classificazioni utilizzate nei testi con quelle contemporanee: che cos’è, ad esempio la gallia muscata? Nel loro articolo, Corbineau e coll. hanno repertoriato (in diverse occasioni - è necessario specificarlo - attraverso edizioni tarde o secondarie) un primo nucleo di diciassette ricette risalenti ad un periodo compreso fra il XIV e il XVIII secolo: dodici di area francese e le restanti di area italiana. Soffermiamoci su queste ultime, facendo dove necessario qualche osservazione comunque da “profani”. Il più antico esempio reperito è quello relativo all’(anti)papa Alessandro V: morto nel 1410 a Bologna, dopo l’imbalsamazione effettuata da Pietro d’Argellata (?-1423), allora docente di chirurgia del locale Studio, fu sepolto nella chiesa di San Francesco[3]. Il secondo sarebbe invece relativo ad un altro papa Alessandro, il sesto, Rodrigo Borgia (1431-1503): a ben vedere, però, si tratta probabilmente di un errore attribuibile agli eruditi francesi dell’Ottocento. Corbineau e coll., infatti, citano la ricetta da un testo della prima metà del XIX secolo dedicato alle imbalsamazioni, l’Histoire des embaumements et de la préparation des pièces d’anatomie normale (pp. 180-181 dell’edizione 1841[4]) di Gannal, che non indica però la sua fonte: il confronto fra questo testo e quanto invece scriveva, in latino, Pietro d’Argellata quasi un secolo prima della morte di Alessandro VI mostra che nella tradizione francese è presumibilmente avvenuto uno scambio fra i due papi (cosa già segnalata da Salvatore de Renzi in relazione a un altro autore francese di poco più giovane di Gannal, lo storico della medicina Joseph-François Malgaigne[5]). Il terzo è il metodo proposto, richiamandosi al persiano al-Rāzī (865-930), dal medico, attivo fra Cuneo e Genova, Giovanni da Vigo (1450-1525). Corbineau e coll. lo conoscono attraverso un’edizione secentesca di una traduzione italiana, ma il medico l’aveva originariamente pubblicata in latino nella Practica in chirurgia nel 1514[6]. C’è poi una ricetta di un altro filosofo naturale bolognese, Ulisse Aldrovandi. Anche questa è però citata da Gannal che in questo caso indica (alle pp. 183-184), dove l’ha rinvenuta, nel libro VI del De animalibus insectis libri septem (1602)[7]: nel leggerla nell’originale latino sorge il sospetto che sia ispirata a quella presentata qualche anno prima (1575) dal medico francese Ambroise Paré (1510-1590)[8], una delle ricette francesi del corpus di Corbineau, conosciuta ancora attraverso Gannal. Conclude la serie degli autori italiani la ricetta pubblicata intorno agli anni ‘30 del XVII secolo dal barbiere napoletano Cintio d’Amato nella sua Prattica Nova[9]. Per quanto riguarda la corrispondenza fra i nomi antichi e le attuali classificazioni botaniche post-linneiane, gli autori ipotizzano che nelle fonti siano menzionate piante appartenenti a ventotto diverse famiglie: fra le piante più rappresentate, diverse autoctone, come l’assenzio maggiore (Artemisia absinthium), le radici di una genziana non identificata e dell’iris “di Firenze”, la maggiorana (Origanum majorana), i fiori di lavanda (Lavandula sp.), le foglie e i fiori di rosmarino (Rosmarinus officinalis), e alcune importate come il sandalo o le spezie cinnamono, noce moscata (dell’albero indonesiano Myristica fragrans) e i chiodi di garofano (boccioli floreali diSyzygium aromaticum). Nella tabella che elenca queste parti di piante compare in fondo anche la gallia muscata come indeterminata: si può notare che in letteratura è descritta come una preparazione farmaceutica, composta da diversi ingredienti[10]. Segue poi una tabella che invece elenca gli “estratti” di piante: qui quelli più rappresentati sono resine come la mirra (specialmente tratta dalla Commiphora myrrha), il benzoino (da Styrax benzoin) e lo storace liquido (che gli autori attribuiscono al genere Styrax, ma che in letteratura è ritenuto, per il periodo di interesse, prodotto da Liquidambar orientalis, del Mediterraneo orientale) nonché l’Aloe sp. Sono invece tredici gli studi archeobotanici su resti umani presi in considerazione nell’articolo. In questo ambito, predominano i casi italiani, con otto individui studiati fra il 2005 e il 2011 dal gruppo di paleopatologia dell’Università di Pisa, coordinato da Fornaciari. Si tratta di sepolture avvenute fra la metà del XV e il XVII secolo, fra Umbria (la beata Cristina di Spoleto), Toscana (i coniugi senesi Capacci e, a Firenze, Don Filippo Medici e un neonato non identificato) e Napoli (Maria e Giovanni d’Aragona e il card. Flavio Orsini). I casi della Francia settentrionale risalgono invece al periodo XVI-XVIII secolo e, curiosamente, comprendono diversi cuori imbalsamati separatamente. La review di questi studi ha portato a compilare una tabella che elenca decine di piante individuate attraverso macro-resti (come frammenti di foglie, fiori, frutti etc.) o polline. Secondo gli autori, però, molti di questi resti non sono legati al processo di imbalsamazione, ma sono dovuti piuttosto a contaminazioni antiche o altri processi cui è stato sottoposto il corpo, come il lavaggio. Per quanto riguarda i pollini, poi, un certo numero di questi potrebbe essere dovuto al miele, che alcune ricette includevano fra le sostanze utilizzate per conservare i corpi. Partendo però dalla lista stabilita con l’esame delle fonti scritte e dalla concentrazione nei campioni, gli autori ritengono di poter selezionare un certo numero di piante che potrebbero essere legate proprio all’imbalsamazione, appartenenti in particolare alle famiglie delleLamiaceae (di cui fanno parte il rosmarino, la lavanda, la maggiorana etc.), Asteraceae (fra le altre, l’assenzio), Apiaceae e Myrtaceae (mirto, Myrtus communis e i chiodi di garofano). Cosa comunque ci dicono i risultati di questo studio? Per gli autori “i farmacisti scelgono gli ingredienti da un’ampia ‘polifarmacia’ e le ricette sono molto diverse [cambiando anche all’interno dello stesso sito, NdLabanti]. Tuttavia, i preparati mostrano proprietà simili”. Molte delle piante e resine censite hanno proprietà antisettiche: ad esempio, la lavanda, la maggiorana, il rosmarino, la mirra, il benzoino. “Sarebbe interessante ora stabilire se fossero davvero efficaci nel rallentare la decomposizione”, scrivono ancora, o se invece erano scelte solo perché in grado di donare un odore piacevole alle salme: quel che sembra un interessante progetto di ricerca sperimentale, se qualcuno volesse portarlo avanti. Lo studio mostra anche che le analisi archeobotaniche classiche non sono in grado di identificare gli estratti di piante come mirra, benzoino e similari: qui potrebbe venire in aiuto la chimica bioanalitica, come indica una ricerca in corso sul sito francese di Flers, dove sembra sia stata identificata una resina simile al benzoino. Quello di Corbineau et al., dicevamo, è uno studio pionieristico. Già nell’articolo gli Autori suggeriscono di estenderlo ad altre aree europee dove altri resti umani sono già stati studiati con tecniche archeobotaniche. Potrebbe essere quella l’occasione per riprendere in mano, con l’aiuto di storici della medicina, anche la parte più propriamente filologica e quella delle riclassificazioni, in modo da rinforzare i risultati e chiarire eventuali dubbi che possono essere rimasti dopo questo primo importante lavoro. E i lettori di Query, si può immaginare, saranno molto interessati ad eventuali futuri lavori sperimentali. Nel caso, ne riparleremo.
fonte : www.cicap.org